Loris Dalla Rosa
2024-02-11 15:19:09 UTC
[Questo 3D prosegue da "Dialogo con il turco", diventato troppo lungo.
E' un po' complesso e non mi sento di chiedere a tutti la pazienza di
seguirlo fino in fondo:-)]
"Metafisica concreta", il lontano progenitore di questo e del precedente.
Una parte significativa della citazione, perche' gia' introduttiva della
questione con posi, e' questa:
<<Formalmente, possiamo dire necessario ciò che è *impossibile* non sia
sia. Opposto al necessario sta perciò l'impossibile. Non certo il
*contingente*; infatti il contingente vale *in qualcosa*, e là dove
valga ecco che esso risulta necessario. Non vi è alcuna contrarietà tra
necessario e contingente; essi appaiono chiaramente compatibili.>>
La questione che si e' sviluppata si e' incentrata sul significato di
"possibile" in relazione con i futuri contingenti, i particolare sulla
definizione da darne: la definizione A: "possibile e' cio' che non e'
necessario che non sia" (o, in modo esplicitamente vero-funzionale,
"...che non e' necessariamente falso") e la deefinizione B, che e' la A
con l'aggiunta della coordinata "e che non e' necessario che sia".
Posi dice giustamente che la A e' quella che normalmente usano i logici,
io sostengo la B, sollevando la questione se essa sia sufficiente per
evitare una ambiguita' che sarebbe esiziale per la precisione logica e
consistente nel possibile fraintendimento tra possibile in senso
allargato (come l'hai chiamato tu) e nel senso del possibile del
necessario (l'"ab esse ad posset valet consequentia" della Scolastica).
Un'ambiguita' che puo' generare una contraddizione e imputabile allo
stesso Aristotele, o perlomeno sospettabile in qualche passo del "De
interpretatione", non avendo ben distinto anche nominalmente i due sensi
del possibile. Questa la questione in sintesi. In tale contesto io ho
insistito, tenendo sempre presente il problema dei futuribili e un po'
scimmiottando ironicamente la "metafisica concreta" di Cacciari, per
dare alla questione un taglio di *logica* concreta, aderente alla
realta' fattuale, in cui le modalita' logiche abbiano un carattere
vero-funzionale, evitando il proliferare di modalita' di secondo, terzo
o di qualunque altro grado. Ho posto insomma il problema della riduzione
delle modalita' a quelle di primo grado, e a questo punto ho introdotto
come esempio quella formula di riduzione di Lewis, controintuitiva e
apparentemente (non solo per me) paradossale:
◊◻P = ◻P
Intuitivamente piu' che paradossale e' un pasticciaccio piu' brutto di
quello di via Verulana, perche' sarebbe intercambiabile con questa:
◻◻P = ◻P, che e' lapalissiana, direi, e se le coppie ◊◻ e ◻◻ fossero
intercambiabili faremmo meglio ad occuparci di orticoltura invece che di
logica.
Ma una soluzione alternativa ci sarebbe, di tipo di semantica dei
simboli modali: se col segno ◊ si intendesse la possibilita' del
*necessario*, non ci sarebbe piu' alcun paradosso vero o apparente.
Infatti se P e' possibilmente necessario (cioe' possibile nel senso
della possibilita' del necessario), esso e' necessario in almeno un
mondo possibile; percio' e' necessario in tutti i mondi possibili e di
conseguenza vero in tutti essi. (Questo renderebbe il simbolo ◊
superfluo? No, perche' p.e. la necessita' che tutti gli uomini sono
mortali implica la possibilita' del necessario che Tizio sia mortale,
che Caio lo sia ecc.)
Questo pero' renderebbe di natura del tutto diversa la nostra questione,
perche' si dovrebbe rifiutare la def.B, ed essendo (la questione) legata
all'incertezza dei futuri contingenti, e' di natura *epistemica*, mentre
con quanto detto diventa esclusivamente *ontologica* (come lo diventa
immediatamente per il Cacciari della citazione all'inizio di questo
lungo post). Sul piano ontologico l'epistemologia non ha cittadinanza,
ma nemmeno l'inverso
famosa formula della Barcan ("se è possibile che qualcosa esiste, esiste
sotto. Mi sembra inutile ripeterle in altro modo. Tutto questo, a
proposito di filosofi, quello dell'essere perfettissimo cui alludi, puo'
gettare l'ombra di una petizione di principio sulla sua famosa
dimostrazione. Ma adesso non e' il caso di allungare ancora questo post
(che non rileggo, per cui scusami se c'e' qualche refuso)
Un saluto,
Loris
E' un po' complesso e non mi sento di chiedere a tutti la pazienza di
seguirlo fino in fondo:-)]
Vedo che la discussione sulla questione delle due nozioni del
possibile (la seconda, quella allargata che rende impossibile al
possibile di includere il necessario, è costituita da una
*congiunzione*, come hai notato) è ripresa e a riguardo non avrei nullapossibile (la seconda, quella allargata che rende impossibile al
possibile di includere il necessario, è costituita da una
da aggiungere a quanto già detto nel thread su Cacciari: un filosofo
non può limitarsi a disambiguare usando segni differenti.
E' proprio Cacciari, il 3D che hai aperto con la citazione danon può limitarsi a disambiguare usando segni differenti.
"Metafisica concreta", il lontano progenitore di questo e del precedente.
Una parte significativa della citazione, perche' gia' introduttiva della
questione con posi, e' questa:
<<Formalmente, possiamo dire necessario ciò che è *impossibile* non sia
sia. Opposto al necessario sta perciò l'impossibile. Non certo il
*contingente*; infatti il contingente vale *in qualcosa*, e là dove
valga ecco che esso risulta necessario. Non vi è alcuna contrarietà tra
necessario e contingente; essi appaiono chiaramente compatibili.>>
La questione che si e' sviluppata si e' incentrata sul significato di
"possibile" in relazione con i futuri contingenti, i particolare sulla
definizione da darne: la definizione A: "possibile e' cio' che non e'
necessario che non sia" (o, in modo esplicitamente vero-funzionale,
"...che non e' necessariamente falso") e la deefinizione B, che e' la A
con l'aggiunta della coordinata "e che non e' necessario che sia".
Posi dice giustamente che la A e' quella che normalmente usano i logici,
io sostengo la B, sollevando la questione se essa sia sufficiente per
evitare una ambiguita' che sarebbe esiziale per la precisione logica e
consistente nel possibile fraintendimento tra possibile in senso
allargato (come l'hai chiamato tu) e nel senso del possibile del
necessario (l'"ab esse ad posset valet consequentia" della Scolastica).
Un'ambiguita' che puo' generare una contraddizione e imputabile allo
stesso Aristotele, o perlomeno sospettabile in qualche passo del "De
interpretatione", non avendo ben distinto anche nominalmente i due sensi
del possibile. Questa la questione in sintesi. In tale contesto io ho
insistito, tenendo sempre presente il problema dei futuribili e un po'
scimmiottando ironicamente la "metafisica concreta" di Cacciari, per
dare alla questione un taglio di *logica* concreta, aderente alla
realta' fattuale, in cui le modalita' logiche abbiano un carattere
vero-funzionale, evitando il proliferare di modalita' di secondo, terzo
o di qualunque altro grado. Ho posto insomma il problema della riduzione
delle modalita' a quelle di primo grado, e a questo punto ho introdotto
come esempio quella formula di riduzione di Lewis, controintuitiva e
apparentemente (non solo per me) paradossale:
◊◻P = ◻P
Intuitivamente piu' che paradossale e' un pasticciaccio piu' brutto di
quello di via Verulana, perche' sarebbe intercambiabile con questa:
◻◻P = ◻P, che e' lapalissiana, direi, e se le coppie ◊◻ e ◻◻ fossero
intercambiabili faremmo meglio ad occuparci di orticoltura invece che di
logica.
Ma una soluzione alternativa ci sarebbe, di tipo di semantica dei
simboli modali: se col segno ◊ si intendesse la possibilita' del
*necessario*, non ci sarebbe piu' alcun paradosso vero o apparente.
Infatti se P e' possibilmente necessario (cioe' possibile nel senso
della possibilita' del necessario), esso e' necessario in almeno un
mondo possibile; percio' e' necessario in tutti i mondi possibili e di
conseguenza vero in tutti essi. (Questo renderebbe il simbolo ◊
superfluo? No, perche' p.e. la necessita' che tutti gli uomini sono
mortali implica la possibilita' del necessario che Tizio sia mortale,
che Caio lo sia ecc.)
Questo pero' renderebbe di natura del tutto diversa la nostra questione,
perche' si dovrebbe rifiutare la def.B, ed essendo (la questione) legata
all'incertezza dei futuri contingenti, e' di natura *epistemica*, mentre
con quanto detto diventa esclusivamente *ontologica* (come lo diventa
immediatamente per il Cacciari della citazione all'inizio di questo
lungo post). Sul piano ontologico l'epistemologia non ha cittadinanza,
ma nemmeno l'inverso
Ma a proposito di letture intuitive o meno di una stessa formula, non
trovi che se rimpiazziamo il termine a sinistra della formula
dimostrabile in S5 'Poss(Nec(P))=Nec(P)' con la nozione logica di
possibilità come non necessità dell'opposto svanisce ogni intuitività?
Infatti l'intuizione per cui si può capire perché se è possibile che
qualcosa sia necessario allora è necessario non funziona più se al
posto di "è possibile che qualcosa sia necessario" mettiamo "non è
necessario che qualcosa non sia necessario". Per quale ragione se non ètrovi che se rimpiazziamo il termine a sinistra della formula
dimostrabile in S5 'Poss(Nec(P))=Nec(P)' con la nozione logica di
possibilità come non necessità dell'opposto svanisce ogni intuitività?
Infatti l'intuizione per cui si può capire perché se è possibile che
qualcosa sia necessario allora è necessario non funziona più se al
posto di "è possibile che qualcosa sia necessario" mettiamo "non è
necessario che qualcosa non sia necessario, quella cosa dovrebbe
essere >necessaria? Un problema simile si verifica a proposito dellafamosa formula della Barcan ("se è possibile che qualcosa esiste, esiste
qualcosa che è possibile"), anch'essa dimostrabile in S5. Qui è la sua
inversa ad essere intuitiva, mentre non lo è affatto la formula, che fapassare dalla possibilità de dicto a quella de re. Ci vuole poco per
farla interagire con il problema dell'essere perfettissimo D: se èpossibile che esista x tale che x=D, allora *esiste* x tale che è
possibile che x=D.
Beh Marco, ho detto sopra molte cose che avevo intenzione di dire quipossibile che x=D.
sotto. Mi sembra inutile ripeterle in altro modo. Tutto questo, a
proposito di filosofi, quello dell'essere perfettissimo cui alludi, puo'
gettare l'ombra di una petizione di principio sulla sua famosa
dimostrazione. Ma adesso non e' il caso di allungare ancora questo post
(che non rileggo, per cui scusami se c'e' qualche refuso)
Un saluto,
Loris
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www.avast.com
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